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“Dei fiori che rinascono”, l’ultimo romanzo dello scrittore cagliaritano Giulio Neri

La recensione di Alessandro Serra: memoria, colpa e verità sommerse in una comunità che si specchia nella caduta di un uomo
La Redazione

È singolare come un paese piccolo ma operoso come un’arnia possa
all’improvviso scoprire la profondità della propria coscienza solo
quando uno dei suoi abitanti giace immobile in un letto.
Ce ne dà una dimostrazione Giulio Neri, con il suo ultimo romanzo,
Dei fiori che rinascono.


Antimo Ligas

Partendo dalla caduta di un solo uomo – Antimo Ligas – l’autore
finisce per sondare l’intero microcosmo emotivo che gli gravita
attorno. Vittima di un aneurisma, Antimo diventa il perno di una
coralità inquieta ma piena di reminiscenze: amici e parenti affiorano
al suo capezzale con ricordi distorti, colpe rimosse, omissioni che,
sommate, formano un mosaico imperfetto, un vero archivio
psicologico della comunità.


Più di tutti: Ignazio, Stanis, Olimpia, ognuno con un’offesa taciuta o
un rimpianto che ancora brucia. Non guardano il corpo di Antimo, ma
la sua tomba: e si attivano in una sequenza di confessionali intimi pur
di cacciare le ombre che incombono e liberarne l’anima.


Il mito della dannazione

A rompere questa circolazione chiusa arriva Lorenzo Campoformio,
l’unico personaggio che non finge: né bontà, né cattiveria, né
comprensione per la propria rovina. È una presenza disturbante,
portatrice di un passato irrisolto e di una confusione morale che
celebra l’istinto e, involontariamente, il mito della dannazione.


È un romanzo di ascendenza platonica: non nella giustificazione di
un Eros — celeste o terreno che dir si voglia, benché di erotismi
siano piene le intercapedini dei capitoli — ma nella ricerca del Vero.
Così la memoria diventa l’unica forma di conoscenza del mondo. La
verità sulla sorte di Antimo non va scoperta, ma ricordata, ossia
riconosciuta. Colpevole è chi dimentica.


I personaggi si presentano solo nel silenzio delle loro coscienze. Non
sanno di essere maschere del romanzo; lo diventano nella storia di
Antimo.


La lingua di Neri

La lingua di Neri è esuberante: un banchetto di metafore, locuzioni
idiomatiche, allusioni e dilatazioni sensoriali che a volte trabocca dal
piatto, ma conserva una sua autentica necessità.
In un’epoca che predilige l’essenzialità, Neri sceglie la pienezza,
malgrado alla fine si affidi al suono leggero di un’ultima preghiera, di
una Pasqua appesa a un muro, di una Resurrezione.


I fiori che rinascono sono “fiori del bene”, e non perché il bene vinca,
ma perché insiste. Una forma di tenacia biologica più che morale.
Fiori testardi che spuntano sulla strada di chi abbiamo perduto, non
perché la vita sia buona, ma perché la vita continua anche quando fa
male. Anche quando non la meritiamo.

(di Alessandro Serra)

Nota biografica
Alessandro Serra (1978) insegna Storia e Filosofia nei licei da oltre
vent’anni. È dottore di ricerca in Lingue, Letterature e Culture dell’età
moderna e contemporanea, con una tesi dal titolo La parola è il
castello, dedicata alla produzione — in particolare elzeviristica — di
Gesualdo Bufalino. Ha collaborato con quotidiani e televisioni; suoi
articoli sono apparsi su «Quaderni di Didattica della Scrittura»,
«Scuola e Didattica» e «Paragone». Nel 2024 ha pubblicato il suo
primo romanzo: Vita di Arturo Amavìs.

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